domenica 14 settembre 2008

Sul Mekong

Salve viaggiatore Pietro!
Mi chiamo Walter ed ho 30 anni, e sto per fare un mio viaggio più agognato: l'Indocina.
Ho letto molte guide tra cui la 'bibbia' Lonley Planet. E mi sono trovato molto male. Poi ho trovato l'Ulysse-Moizzi e mi ci sono subito trovato bene. Dal tuo sito capisco che sei una persona molto occupata e non voglio farti perdere tempo. Vorrei chiederti quanto tempo si impiega dal delta del Mekong fino in Laos? Io vorrei fare la risalita del Mekong con molta tranquillità prendendo i ritmi vietnamiti, cambogiani e laotiani, quindi evitando speed boat o altro.
Aspetto un consiglio.
La saluto,

Walter
10 settembre 2008


Caro Walter,
il tuo progetto di viaggio è molto interessante, anche se non semplice. Le difficoltà della risalita del Mekong sono molte. Programma almeno 30-40 giorni. Se vuoi anche fermarti lungo il percorso, magari per vedere le principali località. Ovviamente prima di tutto Angkor, dove i giorni scorro veloci e non si riesce mai ad assaporarne tutta la bellezza. Una volta in Laos prosegui fino a Luang Prabang e fai una deviazione fino alla Piana delle Giare. Comunque troverai tutte le informazioni sulle mie guide. Se scopri cose nuove fammelo sapere.
Una curiosità. Perché non lo fai in senso inverso, ossia da nord a sud? Non pensi che sarebbe più coinvolgente?

Buon viaggio,

Pietro Tarallo

Di ritorno dall’Ecuador

Pietro carissimo,
sono tornato da Ecuador e Galapagos. La tua guida (aggiornata) è ottima. Naturalmente, come previsto, sulla piazza di Quito, il primo giorno, un microscopico lustrascarpe mi ha sfilato la macchina fotografica dalla tasca con un'abilità eccezionale! Il soroche è piuttosto fastidioso, soprattutto per un fumatore. Le haciendas, poi, non sono riscaldate. C'era, sì, il caminetto, che, però, dovrebbe essere acceso prima dell'arrivo. Nonostante la telefonata, non l'hanno fatto.
La nostra guida era un po', come l'avrebbe definita Carlo, "slandrona". Non ci diceva niente, solo il nome dei paesi attraversati dal pullman (siamo capaci di leggere) e delle coltivazioni che sfilavano dai finestrini. Spesso mi sono divertito a fare un figurone citando quello che dicevi tu sulla guida. Tante montagne, spesso incappucciate dalle nuvole, attraversamenti di zone bellissime a piedi sotto la pioggia... Insomma.
Le Galapagos sono splendide, "che te l'ho dico affa'", come diciamo noi a Roma. Sei giorni più che sufficienti. Guida bravissima e naturalista; l'unica cosa, diceva che aveva incontrato Dio, e che, quindi, l'evoluzionismo di Darwin non era quello che vogliono farci credere. Comunque otarie puzzolentissime a volontà, Lonesome George che forse ne ha messe incinte due e che, quindi, non è gay... iguane a tutto spiano... una natura meravigliosa. E, sul catamarano, cena alle sette e alle otto pronti per andare a letto... Sono riuscito a leggermi quasi un libro il giorno. Però, bene, siamo stati fortunati ad avere un gruppo di compagni di viaggio splendido (non fisicamente), salvo una "cozza" di Roma assatanata, mai scesa dalla barca, e un dentista pugliese - mai sceso nemmeno lui - tabagista all'ultimo livello, con pochi denti (un dentista!) e con l'hobby di pestare con le scarpe i nostri piedi nudi, accusandoci di non stare attenti.
Grazie delle tue guide, spero di incontrarti presto, un abbraccio,

Paolo
9 settembre 2008

Caro Paolo,
le solite croci e le solite delizie dei viaggi organizzati, “cozze” e guide poco professionali comprese. Molto divertente quello che mi hai scritto. Spero che chi ti leggerà rida come ho riso io.
Il povero George, credo, sia l’essere vivente al mondo più sottoposto ad un rigido controllo della sua attività sessuale. Quando ci sono andato la prima volta, circa 15 anni fa, era già oggetto di continui studi da parte di scienziati guardiani che ne misuravano anche il pisello. Che stress! Forse gli hanno dato un po’ di Viagra… e si è prodotto in questa immane performance. Visto che non è più giovanissimo.
La prima volta che passo da Roma mi faccio vivo. Promesso.
Un abbraccio,

Pietro

In viaggio attraverso la vita

Quando i passanti mi guardano, una ragazza di 33 anni che cammina zoppicando marcatamente e con la mano sinistra in tasca e la gamba tesa, pensano subito diverse cose: la primissima è un incidente stradale, la seconda è una gamba rotta o steccata, la terza ha la sciatica e così via…
Ma niente di tutto questo. Mi è capitato qualcosa di diverso, di molto diverso, che stravolge un po’ tutti gli standard che si leggono in medicina: in un pomeriggio di settembre del 2004, mi è venuto un ictus, ischemia o trombosi che dir si voglia. In particolare ho avuto un’otturazione della carotide destra, quella che porta a cervello.
Il clichè a cui si rifanno tutti è che gli ictus si verificano in persone anziane, ultrasessantenni, per la maggior parte uomini (ma c’è anche qualche donna) e fumatori accaniti. E invece vi sono anche tantissime donne, giovani, genovesi anche, mie coetanee (che ho avuto occasione di conoscere nelle sedute di fisioterapia). Un numero incredibilmente molto alto.
Ma per le ragazze che erano state colpite da ictus c’è sicuro un motivo, che generalmente i medici in ospedale trovano: o globuli rossi troppo alti nel sangue, che alla lunga, senza controlli né prelievi, hanno causato l’ictus (ad esempio stress), o valori anomali. I medici, nel mio caso, non mi hanno trovato niente, ma niente, e dubito che ne troveranno la causa.
Io stavo benissimo, ero perfettamente sana e in forma, riposata e divertita anche, poiché ero appena tornata dalle ferie in barca a vela in Grecia, alle Sporadi, ed era stata una vacanza meravigliosa, piena di mare e fondali e venti e meltemi.
Ero felicissima perché tempo prima ero stata selezionata tra i membri della diciassettesima spedizione italiana a Baia Terra Nova, in Antartide: infatti, sono (o meglio ero) microbiologa all’Università di Genova, mi era stata offerta questa occasione unica. Avevo fatto tutto, compresi i controlli a Milano nel caldissimo luglio, presso l’ospedale della Marina Militare, ed ero pronta per fare 2 settimane di addestramento obbligatorio per i novizi della spedizione. Sarei dovuta partire dall’Italia: prima Nuova Zelanda e poi Mare di Ross, e stare lì 2 mesi, da ottobre a dicembre 2004. Il mio ruolo era quello di uscire con i colleghi microbiologi a raccogliere carote di ghiaccio, per campionare i batteri che stavano attaccati sotto (tipo lago), poiché nessuno aveva ancora studiato questo particolare tipo di microrganismi.
Sono partita per l’addestramento: prima una settimana sul lago Brasiamone, vicino a Bologna, sede del Centro ENEA, dove mi sono divertita un sacco: mi facevano fare montaggio tende, giri in elicottero, passaggi in tunnel montati ad hoc (io che sono claustrofobica, uno sballo!). In più c’erano le passeggiatine serali, e la buona cucina in albergo.
Poi la seconda settimana più hard: trasferimento a La Thuile, a 1400 metri di altezza, in Val d’Aosta, e poi sul lago Verney a 2000 metri, vicino al passo per andare in Svizzera, dove, insieme alle guide, ci saremmo accampati una settimana in tenda, a fare trekking, escursioni, e arrampicate, lontani da tutto e tutti, simulando il fatto che eravamo al Polo Sud e non c’erano cellulari.
La mattina del 6 settembre siamo saliti sul bus che ci portava al lago, con militari e guide, e il patatrac si stava avvicinando. A bordo ho iniziato a sentirmi male, mi girava la testa, avevo mal di testa. Alla fine siamo scesi dal bus alla destinazione, ho fatto un bel respiro e ho detto: “sto meglio”. Ho preso lo zaino su uno spallaccio e la testa ha cominciato a girarmi, ho intravisto il lago Verney da lontano e sono svenuta. Era l’ultima volta che mi sedevo su quel sasso con le mie gambe.
I soccorsi in elicottero sono arrivati, mi hanno portato all’Ospedale di Aosta, dove non sapevano cosa avessi. Prima hanno detto che era un tumore al cervello: analisi negative. Poi un aneurisma: analisi negative Alla fine una dottoressa, che non cesserò mai di ringraziare, ha immaginato fosse un ictus e ha osato agire in quella direzione: era davvero ictus e mi sono salvata.
Purtroppo le lunghe ore, più o meno 6, senza ossigeno al cervello mi hanno procurato danni cerebrali e motori gravi (emiplegia, ho gamba e braccio sinistro paralizzati), sono stata più di un mesetto in coma e i miei genitori, sconvolti, hanno rischiato di perdermi. Ma a quanto pare c’era qualcuno lassù. Oppure io, con la mia tracheo e tubi e tubicini, ero veramente attaccata alla vita e sono sopravvissuta. Sono stata a lungo in ospedale a Torino, 6 mesi, e poi a Genova, in carrozzina.
Ora siamo nel 2008, la sedia a rotelle è in garage, mezza sepolta tra 1000 cose inutili, cammino col bastone a tracolla, ma quando ho difficoltà non esito a usarlo, non vado più in auto né in motorino (è anche lui in garage che prende polvere). Non sono ovviamente più andata al Polo Sud (pensare che, se effettivamente fossi partita e mi fossi sentita male, l’aereo non sarebbe riuscito a riportarmi indietro in ospedale in Nuova Zelanda, perché il tragitto minimo è di 7-8 ore, e sarei morta. Questo pensiero mi fa ridere e rabbrividire...
Ora vado a ginnastica tutti giorni, e ci andrò ancora per un pezzo. Sono diventata abilissima con la destra, al punto da trascurare anche la sinistra negli esercizi, ma trovo anche i miei punti di forza: le persone mi stimano un po’ quando dico dell’ictus e mi considerano – comunque- in gamba, meglio di tante altre persone! Ciò non toglie che, ogni tanto, quando sono giù, mi dico che la mia sfiga è stata veramente colossale!
Ilaria Gallizia

6 settembre 2008